“Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune” (Alessandro Manzoni) – Le fiabe del passato? Oggi sono l’equivalente della coperta di Linus van Pelt, rassicuranti e confortevoli. E il futuro? Oh, quello: nessuno sembra sapere più dove stia di casa: troppo imprevedibile e quindi rischioso…
“Si ha torto a vedere nella tecnica qualcosa di moderno e, soprattutto, di cosciente. La tecnica, proprio come il mito, è una rivelazione in cui progressivamente si fanno avanti pezzi di un inconscio collettivo che non è stato programmato da nessuno.” (Maurizio Ferraris. Mobilitazione )
Questa riflessione è formalmente semplice, almeno quanto breve, e si colloca a metà strada tra l’analisi psicologica e le scienze computazionali.
Oramai, infatti, viviamo in mezzo a tecnologie che forse nemmeno la fantascienza aveva osato sperare, con aspettative limitate (sic) solo dalle leggi di mercato, tuttavia i problemi che ci ritroviamo a dover affrontare continuano a rimanere tali, ovvero irrisolvibili.
Una risposta al paradosso potrebbe derivare dal fatto che uno strumento, per quanto universale (come la macchina di Turing o il coltellino dell’esercito svizzero o quel robot di ultima generazione), è solo la proiezione della nostra mano.
Ciò che manca, invece è l’algoritmo, la procedura, le istruzioni, il controllo, la sequenza di azioni: un drone, infatti, non è creativo nelle sue scelte (almeno fintanto che non assisteremo alla nascita della prima – e forse definitiva – I.A.) ma dipende dalle potenzialità della sua programmazione originale e dall’abilità del suo pilota.
Certo, l’ingegneria del software non è cultura diffusa e alla portata di tutti, ma il problema dev’essere ricondotto alla capacità di espressione e di analisi concettuale, più pertinente questa con la linguistica che con la esclusiva logica matematica.
Osservando però gli esiti delle nuove tecnologie, i troppi “selfie” vanagloriosi e i troppi “filmatini” di gesta deprecabili, vediamo chiaramente che stiamo regredendo alla condizione di scimmie che toccano i tasti e si prodigano in sguaiate risa all’accendersi di lucine colorate.
Ce ne rendiamo conto? Probabilmente no, e l’ho aveva già intuito Italo Calvino che, non ha caso, parlava dell’inconscio come del “mare del non dicibile, dell’espulso fuori dai confini del linguaggio”: pulsioni istintive (ataviche) che non riescono a “illuminare” le nostre scelte e a determinare azioni risolutive.
E ancora lo osserviamo in tutte le contraddizioni della società contemporanea, nella dimensione surreale del debito assunto verso le risorse planetarie, nella ricerca della conflittualità perpetua, che sia sulla strada, allo stadio o tra le rovine di città in fiamme.
Ma c’è di più: la cosa peggiore è che oggi avremmo accesso a tutte le informazioni, le notizie e gli insegnamenti, per cercare soluzioni condivise e sostenibili: gli stessi social network, ormai ricettacolo dei più bassi istinti umani, potrebbero essere una sorta di agorà senza confini.
Ed invece sempre più ricerche confermano come “…gli utenti del social network evitano di leggere le notizie che potrebbero mettere in discussione le loro opinioni: il filtro più potente del flusso di informazioni è l’utente stesso.” (Le Scienze).
Quindi neghiamo; neghiamo i problemi (perché ci spaventano o per guadagno personale poco importa) e non cerchiamo risposte: ci fidiamo al più di un futuro tecnologico – come se uno strumento potesse contenere in se la soluzione – rifugiandoci piuttosto in realtà artefatte e fiabesche: perché pensare quindi al futuro, un tempo che non promette nulla di buono?
Gli antichi greci, nella loro mitologia, utilizzavano il termine di “kainofobia”, laddove l’importante è che nessuno metta mai in discussione le nostre opinioni e tutto ciò con cui non abbiamo familiarità.
Convinti (chissà poi da cosa) che il resto andrà bene, come nel migliore dei mondi possibili…
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