Partiamo da una considerazione, che la scarsità “naturale” di beni o servizi è sovente portata a pretesto per legittimare politiche non neutrali.Questo non è un assioma teorico: prendiamo ad esempio la Rete e nel dettaglio il problema che attiene alla scarsità di banda fissa e al limite delle frequenze per la banda mobile: basta fare qualche semplice ricerca d’archivio per scoprire che – almeno in Italia – si tratta di una vicenda collegata alla indisponibilità verso gli investimenti in infrastrutture da parte degli operatori da un lato e alla difesa di privilegi oligarchici dei canali televisivi dall’altra.
Questo in piena controtendenza alla richiesta di democrazia partecipata e alla necessità di superare un periodo di crisi in un momento storico, quello di inizio XXI secolo dove si iniziano a riscoprire e si sperimentano forme di economia quali il riuso, la gratuità, il dono, ovvero il cosiddetto “consumo collaborativo“.
Sharing Economy non è però un termine ad indicare una nuova tipologia di consumismo (leggermente più sostenibile), ma uno spostamento vero e proprio da un paradigma della proprietà di beni verso uno della condivisione dei servizi.
Va da se che un simile approccio all’economia planetaria, oltre ad offrire i vantaggi della proprietà non negata comporta peraltro significative riduzioni di costi e, nel contempo, di impatto ambientale.
Così si va dal bike/car sharing alla condivisione peer-to-peer, dal regalo (con esempi come Freecycle o Kashless) allo scambio (per brevità cito ThredUP e Swaptree), alle aste dell’usato online (quali eBay e Craigslist).
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