“Il punto è che l’esercizio della guerra è inscindibile dalla natura degli esseri umani e della loro lotta per il potere. Per quanto ci sforziamo di crederci superiori o evoluti, dobbiamo avere il coraggio di guardare dentro di noi e alla nostra storia.” (Massimo Carlo Giannini) – Il diario di bordo dell’Enterprise registra un incremento delle contraddizioni tra le genti che vivono sul pianeta Terra. O, forse, questa è la normale condizione della specie umana…
Che si parli del primo contatto con una civiltà predatrice extraterrestre, dell’impatto di un asteroide con la Terra o della terza guerra mondiale, in ogni caso, trattandosi di previsioni, dobbiamo fare i conti con il calcolo delle probabilità sull’evenienza… che in realtà sia la razza umana la causa stessa dei propri mali.
“L’aggressore fiuta le riserve di paura che non sappiamo tenere sepolte” (G.Ceronetti)
Punto primo: parliamo della Paura
In realtà il tema di questo editoriale dovrebbe essere incentrato sull’incertezza, poiché, come è universalmente noto, viviamo in un mondo imprevedibile.
Fatto salvo la nostra mortalità, infatti, tutto ciò che precede è imprevedibile: il semplice fatto di dover prendere decisioni (talvolta persino foriere di eventi fatali) in una situazione di incertezza genera paura.
Così, sostiene il filosofo Zygmunt Bauman, “ Abbiamo paura senza sapere da dove venga la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che causano la nostra ansia e la nostra inquietudine. […] E così le paure tendono a spostarsi dalle cause reali di malessere per scaricarsi su bersagli che sono solo remotamente, sempreché lo siano, connesse alle fonti di ansia, ma che presentano il vantaggio di essere prossimi, visibili, a portata di mano e per ciò stesso possibili da gestire. […] Le paure di oggigiorno sono generate in larga parte dalla globalizzazione (in altre parole, la nuova extraterritorialità) di forze che decidono delle questioni fondamentali riguardo alla qualità della nostra vita e alle possibilità di vita dei nostri figli.”
Ecco quindi come il primo nesso causale collaterale riguardi il senso di certezza (probabilistica) esistenziale.
“Il solo indiano buono che conosco è l’indiano morto”
Punto secondo: ma, allora, chi sono i cattivi di questa storia?
Purtroppo raramente siamo in grado di stabilire a priori la probabilità circa le intenzioni del nostro prossimo: potremmo partire dall’assioma che tutti i casi che incontriamo siano parimenti possibili, tuttavia la realtà ci insegna come non sia cosa semplice persino riuscire a identificare con precisione e contare gli incontri a noi favorevoli su tutti quelli possibili.
A detta di Wikipedia è un falso storico l’asserzione che sia stato il generale Sheridan a pronunciare la famosa frase sugli indiani.
Cionondimeno l’ufficiale nordista condusse le operazioni belliche contro i nativi americani, le cosiddette Guerre indiane, infangando (almeno sempre secondo alcuni storici) la propria reputazione a causa del suo razzismo e per certe sue “operazioni militari” assimilabili ad un genocidio.
La visione dell’indiano “cattivo”, lo sappiamo, ha resistito per oltre un secolo nell’immaginario collettivo e solo una rivisitazione a partire dagli anni ’70 del secolo scorso ha proposto un’analisi storica meno ideologizzata e probabilmente più realistica di tale popolo.
E’ banale, ci vuole tempo per rielaborare gli eventi in maniera meno soggettiva, vuoi a causa del coinvolgimento politico, culturale oltre che personale di chi esprime pareri e giudizi.
Però il dubbio che a questo punto dovrebbe sorgere (almeno in chi professa un minimo di onestà intellettuale) riguarda tutte le etnie che sono al giorno d’oggi visti come gli indiani della nostra epoca contemporanea.
“Non esiste massacro che protegga dal prossimo massacro” (E.Canetti)
Punto terzo: come dobbiamo dunque rispondere alla violenza?
E’ l’ennesimo paradosso della vicenda: l’esperienza infatti, ci permette di “calcolare” la probabilità di ricevere un colpo, solo dopo che l’evento – o meglio un bel numero di questi eventi – si è verificato.
Pertanto qualunque azione violenta (almeno quelle contro civili inermi) è da “eradicare” senza nessuna remora etica – in difesa del concetto stesso di civiltà e umanità – ma tali fenomeni estremi non sono mai fini a se stessi e appaiono piuttosto come i sintomi di una malattia, che ne è la vera e continua causa scatenante.
Banalmente, è (o dovrebbe essere) chiaro a tutti che c’è un confine, una differenza sostanziale: non è la stessa cosa se gli obiettivi di un’azione dimostrativa sono solo militari o piuttosto solo civili, ma è altrettanto lampante, per continuare la metafora della malattia che eliminare la sola sintomatologia (la banda di terroristi di turno) non corrisponde a guarire dal male.
E qui le cose si complicano, anche perché, a ben vedere, la mano che ha armato il terrorista di oggi potrebbe risultare essere la stessa che ha aiutato il terrorista di ieri: poiché stiamo assistendo a quella che gli specialisti definiscono guerra (ideologica ed economica) asimmetrica, fatta si di scontri militari, ma anche e soprattutto di propaganda e di terrore.
Talvolta viene persino da pensare che, a secondo del vincitore di turno, la Storia ufficiale decreti chi sia il “buono” e chi il “cattivo”; salvo che poi ci vorranno decenni per stabilire (se mai possibile) cosa veramente sia accaduto.
“La pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi” (Socrate)
Punto quarto: dove andiamo allora a ricercare l’origine di tutti i nostri mali?
A saperlo! Una sola cosa è chiara: che non possiamo fare affidamento sul concetto di probabilità soggettiva, perché – appunto – essa ha il brutto vizio di variare da soggetto a soggetto.
C’è un principio deterministico di causa-effetto che peraltro potrebbe (senza nessuna garanzia) portare ordine in questo caos: è quello della responsabilità universale.
Ve lo spiego con un esempio che è più semplice: sappiamo infatti che gli eventi meteo-climatici estremi sono (e saranno sempre più) tra le cause primarie della povertà a livello globale.
A sostenerlo è la mappa, tracciata dall’Overseas Development Institute, della probabile geografia della povertà nel 2030 quando oltre 325 milioni di persone vivranno in aree esposte ad alto rischio di disastri naturali.
Le ricerche, esaminano le eventuali correlazioni tra i disastri naturali e la povertà nei prossimi anni, utilizzano le proiezioni di crescita della popolazione, i modelli climatici e le stime su come i governi potrebbero reagire e prevenire gli effetti dei disastri naturali.
Dalle siccità alle piogge alluvionali, dagli incendi al livello accresciuto delle maree: parliamo di un grave problema la cui soluzione sarebbe logicamente la prevenzione; più verosimilmente assisteremo alla necessità di epocali missioni di salvataggio.
Ecco allora le migrazioni di massa, che coincidono con l’origine delle nostre paure, strumentalizzate da poteri senza scrupoli che tendono per i loro interessi a farci vedere nella presenza dello “straniero” il pericolo maggiore, laddove invece è la nostra natura molto egoistica e sciupona a farla da padrone.
Ed è la teoria delle probabilità a confermarci questa visione: si, d’accordo, è un concetto complesso e difficile persino da definire, ma importante per comprendere come la razza umana sottostimi gli effetti della sua stessa essenza sulla realtà che la circonda…
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