“Non spetta a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è […], di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo.” (J.R.R. Tolkien, Il Ritorno del Re)
Teoria vuole che attendere passivamente i soccorsi non aumenta le probabilità di sopravvivenza a seguito di un incidente o calamità e che, in un simile scenario, le nostre azioni non devono essere intrapresa all’insegna dell’improvvisazione: in un tale contesto, caratterizzato da repentini e drastici cambiamenti, dobbiamo farci trovare preparati, senza pregiudizi e con una ben precisa “visione” sul futuro…
Sostiene il blogger Luca De Biasi che “Una visione è quasi sempre un insieme di esperienza, interpretazione e valori, che si esprime come una narrazione capace di creare un mondo di senso che non c’è ma potrebbe esserci innovando.”
Ora, cerchiamo di calare quest’astrazione in uno scenario più concreto quale i primi decenni del ventunesimo secolo, laddove il lemma più diffuso sul pianeta Terra era la parola “Crisi”, termine mutuato dal greco antico “Decisione”.
In questo momento storico, anche la ricca e tecnologicamente avanzata società occidentale inizia a riconscere i sintomi di un cambiamento tanto traumatico quanto epocale.
Domandiamoci quindi se la cultura occidentale del tempo era davvero superiore alle altre?
Ancora nel XIX secolo, i fondatori dell’antropologia, Lewis Morgan ed Herbert Spencer vedevano le società umane come stadi successivi di un processo lineare di evoluzione sociale: dai selvaggi, ai barbari agli uomini civilizzati: era l’idea (non aliena del pensiero di Carlo Marx) di una sorta di processo ciclico, inevitabile per quanto ciclico.
Nel secolo successivo la genetica, dimostrando come non esiste una gerarchia delle razze o delle civiltà, ha ribaltato tale visione (non priva di connotazioni razziste): dopotutto gli indios dell’Amazzonia o gli aborigeni australiani non sono più “primitivi” di un biondo abitante della mittel-Europa.
Il tentativo di riconoscere come significative (e, tutto sommato, integrate nel loro contesto ambientale) le diverse espressioni della cultura umana, è tuttavia vanificato da tutta una serie di (eccessive) contraddizioni sociali, politiche, economiche ed ecologiche a livello planetario.
Il primo sintomo evidente della globalizzazione si è avuto, drammaticamente, nella scala mondiale dei conflitti bellici, estendendosi però anche ai mercati e alla cultura, in un processo tanto lento quanto inevitabile.
Così quello che accade nel XXI secolo, in un punto qualunque del pianeta, e’ fortemente influenzato da quanto avviene in molti altri punti del sistema, a volte anche in tutti gli altri punti.
Ecco dunque che il significato della parola “Crisi” viene ad assumere un significato diverso e collegato ai concetti di “caos” e “interdipendenza”: un sistema unito in tutti i suoi punti da una sorta di ragnatela (dove le maglie si sostengono e dipendono le une dalle altre) dove il cambiamento si propaga (appunto) i-ne-so-ra-bil-men-te.
In un simile modello, la natura quanto l’energia, il traffico nelle metropoli quanto il volo degli degli uccelli migratori, i flussi finanzaria quanto gli uragani, tutto diventa rete all’interno di una sovra-rete “universale”.
Immaginate una perturbazione che si trova a percorrere tutti gli archi di tale struttura (non vi ricorda il problema dei ponti di Konigsberg di kantiana memoria?) e che genera al suo passaggio instabilità nei nodi.
E’ noto che l’impossibilità previsionale (che a sua volta impedisce di identificare “decisioni” puntuali) genera lo stesso stress nell’individuo – che si accorge di non controllare alcun aspetto del processo cui è testimone – di una persona coinvolta in una calamità,; per tale ragione le nuove generazioni del XXI secolo dovranno imparare a progettare il loro futuro in funzione di questa visione: essere addestrate al cambiamento, anzi, venirgli incontro con azioni razionali, ne più, ne meno di un’escursionista che si è perduto tra i percorsi di una montagna – i pendii resi instabili a causa del riscaldamento globale – che però sa come agire (e si è attrezzato appositamente) senza panico nell’attesa del soccorso alpino.
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